Didoo

Big Data, Intelligenza Artificiale, Conoscenza.

Alcune riflessioni sul tema big-data e giornalismo

Alcuni mesi fa Daniele Bellasio, caro amico e magnifico giornalista, oggi caporedattore de IlSole24Ore.com, mi ha chiesto di scrivere una riflessione sul tema big-data e giornalismo per la sua tesi, presentata al termine di un master professionale su come utilizzare tecniche di data analysis in ambito giornalistico. Potete leggere (e scaricare) l’intera tesi qui.

Quello che segue è il mio modesto (un po’ folle) contributo.

Grazie a Daniele per la fiducia e la stima.


Big Data, Intelligenza Artificiale, Conoscenza.

Mi è stata chiesta una riflessione personale sul tema Big Data e giornalismo. Ora, per quanto mi sia chiarissima la relazione fra data e journalism, non sono sicuro della relazione fra big data e journalism. Almeno per come la intendo io e per come la intendono i tecnici.

Big Data è per definizione l’analisi di enormi moli di dati per estrarre informazioni sì, ma soprattutto per permettere ad algoritmi di machine learning di imparare a riconoscere pattern e reagire di conseguenza. Ma in che modo questa tecnologia entra in relazione con il giornalismo?

Se pensiamo alla professione del giornalista nel futuro – e parlo di qualche decina di anni, non secoli – mi sembra inevitabile che subisca la medesima trasformazione che simili professioni “intellettuali” stanno subendo. Per il giornalista non sarà più sufficiente la semplice mera produzione di contenuti, ma occorrerà sviluppare una capacità di operare trasversalmente su più livelli e con più canali di “input” in cui l’accesso e l’analisi dei dati potrà essere uno di quelli più significativi. Ovviamente non saprà fare tutto allo stesso modo e con la stessa competenza, ma sicuramente sarà una figura ibrida, un cosiddetto “full stack”.

Dovrà saper usare e muoversi attraverso la rete, non solo nel senso di web ma anche e soprattutto nel senso di relazioni, connessioni, network (sociali e non); dovrà saper fare editing di immagini, audio, video; dovrà capire come distribuire i contenuti attraverso diversi medium (carta, web, smart tvs, e mille altre cose ancora) e saper adattarli ad essi (una volta si sarebbe detto “impaginarli”).

Ma soprattutto dovrà saper programmare (nel senso di scrivere codice) e fare scraping, aggregazione e analisi statistica di dati. Non solo per produrre semplici grafici (o ancor meglio infografiche, tanto di moda) ma per capire trend, individuare pattern nascosti, estrarre informazioni significative dai semplici, nudi dati.

Che poi è quello che chi si occupa di Big Data sa da sempre: esiste una profonda differenza fra dato e informazione, e in seconda battuta fra informazione e conoscenza. E sta appunto in questa capacità di trasformare i primi nei secondi il valore aggiunto di un bravo analista. E quindi giornalista, laddove si faccia l’ulteriore passaggio da conoscenza a notizia/articolo/saggio/libro.

Ma vorrei andare un passo oltre, in questa mia riflessione. E parlare dell’effetto che la cosiddetta Intelligenza Artificiale (o AI come è spesso indicata) avrà sul futuro. Non solo del giornalista, ma dell’intera umanità.

Perché in realtà non è il solo lavoro che sta cambiando. E’ l’intero mondo che sta cambiando ad una velocità inimmaginabile fino a qualche anno fa. E non ne sto facendo un discorso luddista o pessimista o catastrofista, niente affatto.

L’Intelligenza Artificiale, di cui i big data sono la linfa vitale, porterà con sé un impatto – collisione – tale che ci sarà inevitabilmente uno shift significativo delle competenze e degli skill richiesti a chiunque, e molti dei lavori a basso valore creativo e intellettuale verranno spazzati via da software intelligenti.

In questo senso anche il giornalista del futuro o cambierà, e sposterà il suo peso dalla mera “produzione” di contenuti all’analisi delle informazioni e alla loro elaborazione, oppure sarà destinato a morire. Il suo problema non sarà più come fare in modo che qualcuno “scenda a prendere il giornale” ma come competere con “Siri, mi dici in 5 minuti le notizie più interessanti, prima di uscire?”.

Nel momento in cui ci sono “macchine software” che comprendono pienamente il linguaggio umano (e non manca molto), a quel punto diventeranno il punto di ingresso di qualsiasi interazione non solo con la rete e ma anche con l’ambiente fisico che ci circonda.

Nel momento in cui avremo macchine che si guidano da sole (e non manca molto) e si spostano da sole e possono trasportare autonomamente merci e persone, riuscite a immaginare il solo impatto di una rivoluzione del genere? Altro che Uber!

Nel momento in cui ci sono algoritmi che “pensano” come un essere umano, imparano come un essere umano, e diventano via via più bravi di un essere umano stesso, non rischieremo di diventare superflui, marginali, inutili, lavorativamente parlando? E ricordiamoci, un software è per sempre, non muore!

Non a caso menti straordinarie come Stephen Hawking, Elon Musk, Steve Wozniak e altre decine di esperti stanno levando un segnale di allarme.

Ecco, questo è big data. E il giornalista del futuro dovrà muoversi in questo mare di informazioni, un po’ alla Neo di Matrix, fra etica e privacy, fra terabyte di open-data e leaks di interi archivi governativi, fra numeri che aggregati raccontano la vita di milioni di persone, e numeri che presi puntualmente possono dirti tutto di qualcuno, dai dettagli più innocenti o pubblici a quelli più nascosti e privati. Dovrà fare leva su ciò che ci distingue da un computer o robot: creatività, immaginazione, lateral-thinking, empatia e passione.

Non sarà più “chi detiene l’informazione, detiene il potere”, questo ormai è già assodato e superato, ma “chi detiene la conoscenza, e l’abilità di produrla, detiene il potere” (si pensi alla trasformazione di Google negli ultimi anni).

D’altronde “It’s not the strongest of the species that survive, nor the most intelligent, but the most responsive to change.” (e no, non l’ha detto Charles Darwin).

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