Didoo

Should I stay or should I go

Questo post lo dedico ad Alessandro Nadalin.

Ogni volta che leggo un post di quelli “tosti” di Alessandro, mi ritrovo a pensare per giorni e giorni a quello che ha scritto. Ed è successo anche stavolta, con la sua intemerata sui “fomentati de startup” e su chi si lamenta sempre ma poi se ne sta col “culo nel burro”.

Con il suo idealismo, con il suo manicheismo a volte per cui tutto è “bianco o nero”, riesce sempre a mettere il dito nella piaga, a metterti con le spalle al muro, per cui qualunque cosa pensi, alla fine prevalgono le sue parole e il suo “si vabbè, ma tu?”. E ti senti chiamato in prima persona a dare una risposta, a te stesso prima che a lui. Per cui eccomi qua a provare a dare una risposta alla sua “pro-vocazione”.

In questo periodo non conosco informatico, developer, designer (almeno del mio stretto giro di conoscenze) che non stia pensando di andare a lavorare all’estero. Secondo me siamo intorno al 90% delle persone.
Eppure quelli che effettivamente se ne vanno si contano sulle dita di una mano.
Quindi in un certo senso ha ragione Alessandro: in fondo, forse forse, abbiamo paura di uscire da casa senza il maglioncino della mamma, di mettere il naso fuori dalle comodità che – crisi o non crisi – ci siamo costruiti attorno.

Se penso a me stesso, ed ecco che arrivo al punto, non vedo solo “bianco/nero” ma moltissimi toni di grigio, e non riesco a decidere quale sia la strada “giusta”.

Vedo un paese in cui non si asfaltano più le strade (eppure sono il “terreno comune” delle nostre civis, sono il simbolo della nostra “convivenza civile”); in cui entri nei negozi e nei ristoranti e trovi le luci spente o le lampadine svitate, per risparmiare sull’energia elettrica; in cui le automobili sono sempre più scassate, a volte tenute assieme con il nastro adesivo; in cui le persone vestono abiti rattoppati, e devono sempre più farsi “arrangioni” per sopravvivere. E la cosa mi terrorizza.

Io ho studiato a Trieste, negli anni prima e durante la guerra in Yugoslavia. Eravamo universitari squattrinati, e si andava oltreconfine per mangiare pesce buonissimo (gli scampi alla busara!), raznici e cevapcici, perfino risotti col tartufo, al costo di meno di un panino.
E quello che vedevo “di là” è esattamente quello che ho descritto sopra: strade piene di buche, auto che erano carrette, persone che si arrangiavano come potevano. Come è andata a finire lo sappiamo: io me lo ricordo il rumore che fanno gli pneumatici dell’auto passando sui segni lasciati nell’asfalto dai carri armati. E allora penso che questo paese sta affondando, sotto il suo stesso peso, come è successo lì.

Allo stesso tempo però in questi ultimi mesi ho avuto modo di incontrare persone eccezionali, che lavorano in aziende altrettanto speciali o che hanno avviato nuove attività (startup?) che si sono rivelate successi ben al di là delle più rosee aspettative. E la differenza la fanno le persone. Persone con cui non hai più solo un rapporto cliente/fornitore, ma ti ritrovi a pranzare in casa loro, a far giocare i tuoi figli con i loro. Che sanno raccontarti e spiegarti la bellezza di una facciata di una chiesa, che nonostante tutto continuano a costruire e a sperare, che non mollano e vogliono cambiare le cose dal basso.

E allora pensi che non è tutto perduto. Che c’è ancora speranza, che andarsene significa (in parte anche) tradire la loro fiducia, lasciarli soli a combattere (forse contro i mulini a vento, forse no) per dare un futuro ai loro figli e al paese. Persone che non parlano di meritocrazia: la mettono in pratica davvero. Che non parlano di qualità: la fanno e basta.

Ma tutto questo non è sufficiente. Non è sufficiente per decidere se il mondo è bianco o nero o a toni di grigio (perché nel frattempo ti sei accorto che ha anche tutte le gamme di colori di un arcobaleno). Non è sufficiente per decidere se la scuola italiana, a cui stai mandando i tuoi figli, è la più arretrata o la meno peggio dei paesi cosiddetti “civili”. Non è sufficiente per capire se sei solo un “contribuente pecora da tosare” o invece puoi anche alzare la testa e guardare altrove, lontano, fuori dai confini (quelli nazionali, ma anche e soprattutti i tuoi confini mentali). Non è sufficiente per decidere se lasciarsi tutto alle spalle (case, amicizie, parenti, abitudini, comodità) e iniziare una nuova avventura, oppure restare per dare un “valore” a ciò che hai costruito.

E anche ammesso di aver deciso di andarsene, non è comunque ancora sufficiente per sapere se quello che stai facendo lo stai facendo per te (per ego, per sfida, per stanchezza) o per i tuoi figli (per dargli un futuro diverso, per offrigli diverse opportunità, per farli crescere che sappiano prendere un aereo quando occorre). Non è sufficiente per sapere quale è “il bene” per loro, prima ancora che per te.

E allora alla fine si sta fermi, si aspetta di capire (si sta “impantanati” forse, come dici tu). In realtà non c’è modo di capire, e la tua provocazione è questo che secondo me ha di bello: che sotto sotto racconta che certe scelte non le devi prendere solo quando sei sicuro di avere pronto “il maglioncino della mamma” anche all’estero. Certe scelte probabilmente le devi prendere e basta. Devi chiudere gli occhi e lanciarti. Non perché c’è qualcosa di sicuro più avanti, ma proprio perché non c’è nulla di sicuro, nè qui ne altrove.

Quindi la risposta ultima alla tua “domanda” forse c’è. Ed è semplice. Ma anche “pesante”, difficile da dare per tutte le implicazioni che si porta dietro: “sta a noi, dipende tutto da noi”. Punto.

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