Didoo

Comunicare

Oggi ho pensato (capito? no, forse inconsciamente l’ho capito da un po’; solo non lo sapevo) una cosa. E voglio appuntarmela, per poterlo ricordare in futuro.

Comunicare vuol dire innanzitutto scegliere. Scegliere cosa dire. Scegliere come dirlo. Scegliere a chi dirlo. Scegliere una soluzione, un messaggio, un “tono di voce”. E come tutte le scelte, dire di “sì” a qualcosa implica necessariamente dire di “no” al resto. A tutto il resto. Senza questa scelta di fondo su quale strada percorrere, fra le innumerevoli possibili, e senza la rinuncia a percorrerle tutte, le strade possibili, la comunicazione resta inerte, ferma al via, bloccata al palo. Come quando da ragazzino non sapevi bene cosa dire ad una ragazza, e per paura di dire qualcosa di sbagliato non dicevi nulla, e la voce ti rimaneva chiusa in gola. O come quando in un gruppo di persone provi a fare il simpatico con tutti, a piacere a tutti, e il risultato è che o non ti si fila nessuno perché passi inosservato o sembri quello strambo che non si capisce che cosa voglia esattamente da te.

Ma dietro questa apparente banalità, c’è un punto di fondo, molto più profondo, che mi resta da capire (e che probabilmente non capirò mai): se la caliamo in un ambito più strettamente professionale, a chi spetta questa scelta? al cliente/committente che affida la propria comunicazione ad un professionista, o a colui che è stato chiamato a dare una “voce” ed un volto ad un messaggio, ad una necessità, ad un obiettivo di business? e anche ammesso che la scelta/responsabilità ricada sul professionista, quanto deve difendere coi denti la strada intrapresa, fra tutte le possibili strade che ha individuato, sapendo in cuor suo che quella che ha scelto è la strada migliore? (non apriamo il dibattito sul fatto che “ah ma non esistono strade migliori: dipende dal contesto, dall’utente, dal punto di vista, dai gusti personali, ecc.”; mi spiace non sono minimamente d’accordo: la bellezza non è soggettiva, al limite lo è la percezione della bellezza; ma questo è un altro punto, non divaghiamo…)

Dicevo:  quanto deve spingersi a difendere la propria scelta di comunicazione, un professionista? fino a quanto, fino a che punto può/deve mediare il proprio messaggio (e quindi di fatto “diluire” il potere stesso della comunicazione) senza arrivare al paradosso di rendere un “cattivo servizio”  al proprio committente, ascoltando e recependo tutte le sue richieste di “moderazione” sulla base della paura di escludere una o l’altra strada, questo o quel possibile potenziale interlocutore, questo o quel messaggio? (che poi, lo ripeto sempre, a forza di mescolare i colori fra loro, quello che si ottiene è il grigio!)

Oppure invece è davvero, come molti sostengono, un difetto di comunicazione (mio, intendo) in primis? di non saper “vendere” (o meglio ancora spiegare) le mie scelte? Oppure perché no, un problema ancora più grave (sempre mio, intendo), cioè quello di non aver ancora smesso di innamorarmi delle mie idee, delle mie scelte (Ilaria Mauric su questo punto ha idee molto chiare e precise, ma purtroppo non concordo con lei; so solo che uno dei due sicuramente fra qualche anno dirà all’altro: “vedi, te l’avevo detto!”, e non sono certo sarò io a farlo)? di continuare imperterrito a sentire ciò che faccio, ciò che realizzo come qualcosa di “mio”, quasi un figlio da non lasciare andare al suo destino, a cui vuoi dare sempre il massimo, il meglio?

Sapete che c’è. E’ che in realtà non riesco a vedere il mio lavoro solo come “esecuzione”. Ci metto tanta passione (troppa? bah, secondo me non è mai troppa, ma magari mi sbaglio), in quello che faccio. E ho paura che se lascio morire quella fiamma, poi tutto perde sapore, senso, significato. Forse perché “comunicare” implica mettersi in gioco, innanzitutto sè stessi: significa aprire la bocca, e in un modo o nell’altro “scegliere” cosa dire a quella ragazzina che abbiamo di fronte. Perché altrimenti non saprà mai che cosa volevamo dirle. O peggio ancora, perché altrimenti sapremo solo balbettare: “hai visto che tempo che fa oggi? chissà se domani piove”.

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