Didoo

Ciao Brescia. Hello London.

Scrivo questo post dopo che molte cose sono successe, in un tempo brevissimo (qualche settimana). Molti di voi sapranno già, altri avranno sentito dire o letto qualche mia mezza frase sui vari social network, per altri invece sarà una notizia inaspettata.

Non ne ho scritto prima per diversi motivi: perché ho voluto che la cosa fosse ufficiale e concreta (“For Real ©”), perché sono stato in giro in mezza Italia per lavoro, ma soprattutto perché ho voluto pensare bene a cosa dire e cosa scrivere.

Perciò non la faccio tanto lunga: dal 4 marzo comincio a lavorare a Londra. Nel senso che mi ci trasferisco proprio. Inizialmente solo io, mentre a fine anno scolastico verrà con me tutta la mia famiglia. L’intenzione per il momento é quella di rimanerci per almeno due o tre anni, e poi decidere se restare per un altro periodo, se tornare in Italia o se invece andare a vivere in un altro posto (Chicago? New York? Boh!).

Perché?

Sicuramente per molti la domanda sarà “Ma perché?”. Il fatto é che per dare una risposta a una domanda del genere occorre lo stesso tempo che é occorso per maturare questa scelta: circa un anno, forse più. Peró ci ho pensato, molto, e anche se é difficile e non ho tutto questo tempo, un minimo di risposta provo a darvela.

Ci sono motivi strettamente legati alla situazione politica ed economica italiana, ma che é inutile star qui a discutere: le cose sono sotto gli occhi di tutti, e tutti concordano su cosa non va, su cosa é malato, su cosa é disfunzionale, su cosa va cambiato, pena il famoso baratro. La differenza la fa quello che ognuno di noi poi decide di fare. E quindi a un certo punto qualcosa si é rotto in me, e ho deciso che l’unica soluzione in certi casi – in cui sei evidentemente minoranza – l’unica cosa da fare, l’unica cosa che ti lasciano fare, é quella di prendere, alzarsi e andarsene. Uscire dalla stanza. Perché se non lo fai, diventi complice. É il passaggio dal dire che le cose non vanno, al fare qualcosa. Questo é stato il mio qualcosa. Prendetelo per quello che é, e non ditemi che potevo provare a cambiarle, le cose. Primo, perché ci ho provato, e credo che in qualche -minuscola, infinitesimale – misura, ci sono riuscito. E secondo perché ho scoperto – con mia somma sorpresa – che stiamo in un campo per me tutto nuovo, sul quale mi sono trovato mio malgrado a dover scegliere: quello delle libertà individuali, che hanno come speculare lato della medaglia quello delle responsabilità individuali. La “libertà” di prendere e andarmene coincide topologicamente con la “responsabilità” di dire “no, basta”, prendere e andarsene.

Non pretendo che capiate o approviate (molti di voi non lo faranno, e li capisco), la mia non é una giustificazione, ma una risposta ad una parte dei “perché” che mi sentivo di dare.

Solo una cosa vi chiedo: non pensate e tantomeno dite o scrivete che “é facile andarsene”. Non avete idea di cosa significa, di quanto é difficile, di cosa comporta. Nemmeno lontanamente. Lo dico perché non ce l’avevo nemmeno io, e dire che sono uno di ampie vedute. Quindi, no: questo discorso non attacca.

Ecco, fino a qui abbiamo coperto solo la minima parte delle ragioni, dei “perché”. E fra l’altro riguarda “il passato” nel senso che queste erano la rabbia e la “voglia di andarsene via” che avevo dentro di me l’anno scorso. Ma non sarebbero mai state sufficienti, per farmi partire: non sono un tipo che molla facilmente.

In realtà quello che é successo che mi ha fatto prendere questa decisione é tutt’altro. Non é ció che ho alle spalle, ma ció che ho davanti. Ad un certo punto ho alzato lo sguardo. E anziché guardare i pochi metri che servono per poter camminare senza cadere, ho guardato avanti, verso l’orizzonte (scusate, ma non so come spiegarmi diversamente, non volevo esse melenso) e mi sono domandato dove volevo andare, in quale direzione delle possibili infinite di fronte a me. E due cose – che ricordo come fosse ora – mi hanno fatto decidere di “buttarmi in questa avventura”.

La prima. L’anno che é appena trascorso, é stato quello che professionalmente mi ha dato le maggiori soddisfazioni di tutta la mia vita. Ho avuto dei clienti eccezionali, straordinari (andatevi a riprendere i miei post precedenti, non voglio qui rifare l’elegia dei miei clienti) a cui devo tantissimo, che mi hanno dato totale libertà tecnica e creativa nei lavori che ho fatto per loro, oltre a una enorme fiducia. E i risultati di questa condizione – privilegiata, me ne rendo conto – si sono visti: i miei ultimi lavori sono quelli di cui sono piú fiero, orgoglioso e soddisfatto. E non per niente hanno contribuito enormemente nell’ottenere le interview di lavoro a Londra.

Il punto é che a quel punto mi sono sentito arrivato. Professionalmente, intendo. Piú di così, meglio di così non sarei riuscito a fare. Avevo raggiunto il massimo di quello che potevo ottenere come Area Web, come “one-man-show”. E se volevo crescere ancora professionalmente dovevo uscire dalla mia confort-zone, andare a lavorare in un team, su progetti ancora piú grossi, con agenzie e persone che davvero ne sapessero piú di me (su cosa sono e come funzionano le big-agency in Italia, stendo un velo pietoso avendole viste dal di dentro) e dalle quali potessi imparare ancora molto. A quel punto, se queste erano le premesse, non potevo che trarne le conclusioni. Se non puoi piú crescere professionalmente come singolo, e se le posizioni “di squadra” in Italia sono quelle che sono, che fai?

Faccio una breve digressione: in questo, l’idea di smettere dopo 15 anni di Partita IVA di preoccuparmi di tutto ció che esso comporta – fra burocrazia, fisco, responsabilità, tempo rubato alla famiglia – e fare per un certo periodo di tempo il dipendente (magari per il resto della vita, al momento non mi sono posto il problema) devo essere sincero ha avuto un certo impatto nella scelta di “cosa” volevo andare fare. Per dire: non ho pensato nemmeno per un minuto di tornare a fare nuovamente il contractor in Inghilterra, anche se dicono essere pagati bene. E questo la dice lunga su quanto lo Stato Italiano abbia “bruciato” ogni mia residua energia “imprenditoriale”. Come ho detto e convenuto con un mio collega – anch’egli intenzionato a partire – ad un certo punto ho proprio avuto “bisogno di staccare”.

La seconda. La seconda molla (che in realtà é stato più un battito d’ali di farfalla in Cina che ha scatenato una tempesta in Brasile) sono state le parole di Federico Galassi, parole che hanno dati il via ad un fondamentale incontro/meetup prima e ad un gruppo Facebook poi, parole che riporto integralmente:

Burocrazia, digital divide, tasse da guinness dei primati, strumenti e servizi obsoleti pensati da vecchi per vecchi, parametri economici da previsioni maya e una classe politica/dirigenziale livello banda bassotti. Una freccia luminosa nel cielo che punta verso Londra, Berlino, Amsterdam … altrove. Per la prima volta nella vita mi ritrovo seriamente a pensare che forse questo non è più il posto dove vorrei far crescere i miei figli. Forse lo sentite anche voi. Forse si può fare qualcosa. Parliamone.

Ecco, queste esatte parole hanno fatto cadere tutte le remore, le barriere mentali che mi ero posto (quindi, al limite prendetevela con lui!). Perché non sono parole di rabbia per quello che c’é in Italia, ma di curiosità per ciò che c’é fuori dall’Italia. Sono parole di positività, non di negatività. Di una persona intelligente, che si fa delle domande e alle quali decide di dare una risposta, quale essa sia: di restare o di andarsene. In entrambi i casi, una scelta e non una imposizione o una costrizione. In entrambi i casi, crolla l’alibi del continuare a lamentarsi e basta.

Ecco, da quando le ho lette non ho potuto più smettere di vedere quella enorme freccia luminosa che partiva dall’Italia e puntava altrove. Non era questione di lasciare l’Italia, di guardarsi indietro, ma di andare dove puntava la freccia, di guardare avanti. E per me quella freccia puntava a Londra, non c’era niente da fare (ognuno ha la sua freccia, il difficile é scoprire dove punta).

Scusatemi ma voglio essere quasi pedante su questo punto, perché é importante. Semanticamente importante. Non “fuggo” dall’Italia, questo implica che l’oggetto delle mie azioni sarebbe l’Italia. Mi “trasferisco” a vivere a Londra, e l’oggetto dei miei pensieri, delle mie curiosità e della mia voglia di scoprire e provare é Londra. (Non si inizia una nuova relazione solo perché si é furiosi con la ragazza precedente, non funzionerebbe. Sarebbe una storia destinata ad un totale fallimento, in breve tempo. Giusto? Capite cosa intendo?)

Insomma, mi sono banalmente fatto la domanda “Perché no? Perché non provare?” e non ho trovato risposte convincenti per non farlo. Me le avevano distrutte Federico prima, e poi la riunione/meetup in Ideato, in cui molti hanno raccontato la loro esperienza, e fra questi quasi tutti hanno detto che per i bambini non é affatto un trauma come siamo portati a pensare (era la mia più grande remora).

Da lì all’aggiornare il profilo Linkedin, al preparare un portfolio decente dei lavori fatti, allo scrivere un curriculum serio in inglese, al caricarlo su un portale di ricerca lavoro inglese, al ricevere dieci telefonate il giorno dopo da parte di diversi recruiter, al ritrovarsi con una interview da fare a Londra, dal riuscire nel giro di poche ore/giorni ad averne altre tre con grosse agenzie e startup londinesi, a ritrovarsi a guardare in su enormi e meravigliosi grattacieli nel cuore della City, al ritrovarmi a parlare – in inglese – del mio lavoro e delle mie capacità e competenze con perfetti sconosciuti, al ricevere dopo qualche giorno via email un’ottima offerta di lavoro, al non saper bene che fare, e alla fine mandare l’offerta accettata e firmata, é stato un battito d’ali. (Sto parlando di quattro settimane, non di mesi).

E questo é quanto, sul “perché”. Sul “come” e sul “dove”, anche questa é una storia lunga. Che forse merita di essere raccontata, ma non qui (domani terrò un brainpirlo-flashmob su questo tema, e poi appena riesco ne scriverò sul gruppo Facebook).

Legami

Ci sono peró ancora due temi su cui mi sento in dovere di scrivere.

Il primo é Brescia, e i WEBdeBS in particolare. Amici e colleghi senza i quali quasi certamente non sarei con una valigia in mano, pronto per prendere un aereo verso Londra. Gente con cui ho condiviso passioni e successi, con cui siamo passati dall’organizzare qualche brainpirlo ogni tanto a gestire conferenze di livello internazionale nel giro di pochissimo tempo. Persone con cui si può discutere di Photoshop o Node.js, ma anche di Rap e di come si fa uno spiedo, con cui fondare una startup o fare una partita a freccette o pincanello. Gente speciale, che porta nell’animo e nelle mani il “saper fare” tipico dei bresciani (“genius loci”, direbbe qualcuno). Ragazzi, vi devo davvero tanto.

Il secondo sono tutte quelle persone che in questi anni di attività lavorativa ho incontrato sulla mia strada, e che in un modo o nell’altro hanno influenzato, se non addirittura deviato, la mia “traiettoria” professionale. Parlo di colleghi e professionisti di ogni genere, con cui ho avuto modo di discutere e confrontarmi in qualche conferenza in giro per l’Italia o ad un barcamp a Lugano, sia che fossimo spettatori o invece speaker, con cui ho battagliato in punta di metafora su un thread Facebook o ragionato (e in certi casi polemizzato) direttamente vis-a-vis in mezzo ad una platea di persone. Gente che ha preso ed è andata dall’altra parte del mondo per lavorare. Gente che da anni organizza conferenze e barcamp a proprie spese, per il solo gusto di farlo e per far crescere la community. Gente che a poco più di vent’anni si butta in avventure che farebbero tremare i polsi a persone con molti più anni ed esperienze alle spalle.

Ecco, sono i ringraziamenti che devo loro che mi hanno fatto iniziare a scrivere questo post. Ma che arrivato a questo punto mi mettono in difficoltà. Non so come farli, per non sembrare retorico o scontato. Ho pensato ad un elenco di nomi. Ad un elenco di nomi, con in parte il motivo per cui per me sono persone importanti. A un elenco di nomi, con un saluto e un ringraziamento personale.

Poi ho pensato due cose (sì, sempre due: forse è la dicotomia che mi sto portando dentro al cuore in questo momento). La prima è che non avrei mai finito, sono davvero troppe le cose che avrei da dire, per ognuno di voi. E soprattutto che avrei dato l’impressione di un “addio”.

E invece no. Non pensate che con la mia “partenza” si interrompa tutto. Anzi, ho personalmente avuto la dimostrazione che le reti sociali non sono solo virtuali, ma sono anche e innanzitutto fatte da legami fra le persone. E questo fa la differenza. Una enorme differenza.

Non parlo di “quando passate da Londra fate un fischio che ci facciamo una birra”. Quello è scontato, e mi offenderò di brutto se non lo farete. Parlo di continuare a coltivare i legami e le passioni che ci tengono uniti, della profonda speranza di continuare a vedervi e a discutere e a confrontarci durante qualche conferenza in giro per l’Europa o in Italia, di continuare a contribuire e a far crescere una community di professionisti che – così come d’altronde sta diventando oggi il nostro lavoro – si fa ogni giorno sempre più globale, internazionale, senza confini o nazionalità (o meglio, in cui questi aspetti non contano più nulla).

Chiudo perciò questo mio lungo post con una sola parola, quella che ha mi ha spinto a scrivere, e che è dedicata a voi: grazie.

Cristiano Rastelli

Update: a quanto pare, di questa “emorragia” di informatici si comincia a parlarne anche sui giornali: http://www.corriere.it/economia/13_febbraio_24/di-vico-da-brescia-alla-malesia-emigranti_55a99192-7e52-11e2-b686-47065ea4180a.shtml

Nota filologica: quando qui parlo di “Italia” non parlo di Patria o Nazione: parlo di Stato Italiano. Se non cogliete la differenza, avete un problema di sudditanza (cosa che anche io avevo, poi però per fortuna è passata).

Nota musicale: giustamente mi hanno fatto notare che non ho menzionato uno dei fattori che – a suo modo – ha influenzato la mia scelta. Lo faccio ora: a inizio 2013, come buon proposito per l’anno che iniziava, mi ero riproposto di prendere in considerazione il “Piano B”, che consisteva appunto nell’andare all’estero a lavorare. A fare da “colonna sonora” per questo buon proposito, era stato il pezzo “Piano B” dei Fratelli Quintale. Poi la cosa strana è stata che, quando sono stato a Londra per i colloqui, è uscito Guerra e Pace di Fabri Fibra (parlo dell’intero CD, non solo del singolo), l’ho scaricato e da allora non ascolto quasi altro: è perfetto per questi tempi. “Che tempi” (cit.)


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