Didoo

Italian Agile Day 2010, impressioni.

Eccomi di ritorno dall’Agileday, ed ecco qui le mie impressioni e riflessioni.

Innanzitutto, come ogni volta sono rimasto stupito di come la sua “qualità” (degli interventi, ma anche dell’evento in generale) sia sempre al di sopra di ogni mia aspettativa quindi i miei complimenti vanno ancora una volta a Marco Abis e a tutti gli organizzatori, avete fatto un gran lavoro!

Quest’anno il tema di fondo è stato, ancora una volta, la complessità. Però ho notato che – finalmente – il “mondo agile” ha raggiunto una maturità e una consapevolezza di sè che va al di là delle semplici “metodologie”. Ha maturato anche una maggior/miglior attenzione verso la realtà del business in cui ci muoviamo e in cui siamo quotidianamente immersi. Insomma, un bagno di salutare “realismo” che ha reso il tutto più solido (con i piedi per terra, ma nel senso bello e positivo del termine, con le “radici” nel posto giusto).

Giusto stamattina, ho letto un commento su twitter in cui si diceva che l’agile si sta spostando dalle metodologie alle relazioni fra le persone. Ecco, è proprio questo il punto: qualunque metodologia non può funzionare, se non parte prima dagli individui (Agile manifesto, remember? “Individui e interazioni” ecc. ecc.) e da come questi individui sono fatti, come si comportano, come pensano, come si relazionano fra loro nella realtà. Non individui ipotetici e astratti e “sarebbe-bello-che”, ma persone concrete con tutti i loro difetti, le loro irrazionalità, le loro idiosincrasie. Perché è con quelle persone che abbiamo a che fare, ed è con quelle che dobbiamo – ogni giorno – imparare a lavorare meglio (e vi dò una notizia: fra quelle persone ci siamo anche noi!).

Inoltre ho notato anche una visione del “software” come processo più industriale – ovvero il processo deve/dovrebbe ottenere risultati più certi e possibilmente replicabili – e meno artigianale, quindi con un maggiore senso di responsabilità – passatemi il termine – verso “il business”, che sia nostro o del nostro datore di lavoro o del nostro committente.

Gli interventi della giornata sono stati notevoli, specialmente quelli della mattina. Però se il keynote di Paolo “Nusco” Perrotta e l’intervento di Andrea Provaglio sono stati una conferma di cose che – consciamente o inconsciamente – pensavo, il talk che più mi ha spiazzato è stato quello di Jurgen Appelo, dal titolo “Complexity vs Lean” (un po’ fuorviante, secondo me, ma tant’è).
Il tema di fondo è questo: i principi “lean” trattano un sistema complesso – come è quello dello sviluppo software – come fosse invece un sistema “lineare” e predittivo, e così facendo rischiano di non tenere conto di effetti non-lineari (quindi sbagliare spesso e volentieri, vedasi “effetto farfalla”) ma soprattutto di “tenere fuori dalla porta” ciò che di buono c’è nei sistemi complessi: il “waste” che si trasforma in risorsa, il “work-in-progress” necessario per avere una visone globale, il “cambiamento radicale” (kaikaku) come complemento al “miglioramento continuo” (kaizen), ma soprattutto gli effetti “black swan” e “serendipity”, ovvero l’inaspettato che si trasforma in un evento ad alto impatto sul “business”.

Alberto Brandolini e Jacopo Romei sono stati invece i mattatori (in tutti i sensi) del pomeriggio. Prima con la presentazione “Due uomini e una lavagna”, dove ha fatto capolino una metafora fra sviluppo software e compito in classe (con l’idea di “copia di bella/brutta” e del relativo “saper dove andare” a priori o meno) che andrebbe certamente approfondita, e poi con il divertente “dot game” che avevo già visto all’UXCamp Italia e che ha confermato alcune evidenze un po’ nascoste fra le righe, in particolare il costo/vantaggio della multi-competenza.

In conclusione, anche quest’anno mi sono portato a casa un sacco di materiale “mentale” su cui riflettere e lavorare per i mesi. Un grazie a tutti, quindi: agli organizzatori, ai partecipanti e perché no, anche ai miei… compagni di viaggio.

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