Didoo

Londra, 6 mesi dopo.

Un bilancio, al primo giro di boa.

Con oggi sono sei mesi esatti che mi sono trasferito a Londra. Il tempo è volato, tutto è accaduto così velocemente (e in parte, quasi al di fuori del mio reale controllo) che non mi sembra vero. Quindi ho pensato che forse, tutto sommato, era ora di fare un primo bilancio della svolta che ho dato alla mia vita trasferendomi qui a Londra con tutta la famiglia.

Tralascio il giudizio su Londra (vi ho già sfrancicato i maroni abbastanza, direi, sul cibo, la street-art e i grattacieli) e passo alla “sostanza” delle domande che mi sento rivolgere da chiunque mi chieda come va.

Famiglia

E’ stata – per certi versi inaspettatamente – la cosa più facile: sia perché essendo già a Londra, tutto il fardello del trasloco è ricaduto su Liliana (santissima!), sia perché inaspettatamente i bambini si sono adattati a una velocità stratosferica. Dopo una settimana il più grande, una mattina a colazione, se ne è uscito con “Papà, a Londra tutto è bellissimo, anche andando a comprare il formaggio si vedono cose belle. Londra è 80% bellezza e 20% utilità”. Dopo un mese, rientrando dal lavoro, ho trovato i miei figli che guardavano una partita di cricket su BBC1, ovviamente commentata in inglese, tifando animatamente per l’Inghilterra contro l’Australia. La più piccola dice “i nostri palazzi” riferendosi ai grattacieli di Canary Warf, che vediamo dalle finestre di casa nostra, e ovunque veda un grattacielo (in TV, su un giornale, ecc.) esclama eccitatissima “Papà, è Londra!”. I più grandi hanno avuto modo di frequentare la scuola per l’ultima settimana dell’anno, e non han fatto la minima piega ad affrontare la nuova lingua, il nuovo ambiente, i nuovi compagni. Non credo serva molto altro, per spiegare il loro stato d’animo (e il mio) in questo momento. Fra l’altro, Londra è stata baciata da un clima meraviglioso quest’anno, con settimane e settimane di sole ininterrotto (a quanto mi dicono, abbastanza eccezionale qui) per cui non vi dico come ci siamo goduti i parchi, specialmente quello di Greenwich, e le passeggiate serali in centro città.

Famiglia a Greenwich

Lavoro

Mi piacerebbe poter dire che in questi mesi ho imparato un sacco di cose nuove, che ho usato i framework più cool e le tecnologie più trendy del momento, che è andato tutto come mi ero immaginato prima di venire a Londra. In realtà è accaduto tutt’altro. E a guardarlo in retrospettiva, è stata la miglior cosa che mi potesse succedere.

Quello che è accaduto è che mi sono trovato a lavorare con tecnologie che non conoscevo (e in alcuni casi, nemmeno mi piacevano molto), dovendo usare software e linguaggi che non destreggiavo per nulla (Eclipse, Java), soprattutto con un approccio e un workflow lavorativo non sempre ottimale. Discorso analogo per via di qualità del codice scritto e del prodotto finale consegnato: ci sono stati giorni in cui la discussione con i colleghi è stata davvero accesa (un amico italiano ha coniato il termine #passionmanegement), giorni in cui il senso di frustrazione o di impotenza è stato davvero notevole.

Ma sapete che c’è? Che in realtà il “problema” non era ciò che stava attorno a me, stava “dentro” di me. E si chiamava resistenza al cambiamento. Ho impiegato davvero un bel po’ a capirlo (e ancora oggi, ci sono dei giorni in cui l’istinto di “conservazione” prende il sopravvento) ma alla fine mi sono reso conto che non stavo facendo nullapiù che lamentarmi di qualcosa che non era o non funzionava come dicevo io, come pensavo dovesse essere, come ero abituato fosse. Senza tuttavia provare a trovare una soluzione, una strada diversa, senza provare a cambiare le cose o viceversa adattarmi ad esse. Complaining, only complaining.

E ogni volta che mi trovavo in questa situazione di stallo, alla fine ne uscivo con due “principi” divenuti a me molto cari: “lead by example“, ovvero non pensare di cambiare le cose di colpo o con la forza, puoi farlo solo un piccolo passo alla volta, giorno per giorno, essendo tu stesso il primo a dover cambiare; e “gli schiacciatori NON parlano dell’alzata, la risolvono“, preso da un bellissimo discorso di Julio Velasco (grazie Jacopo!) su quanto sia facile lavorare in condizioni perfette, quando in realtà la differenza la fanno coloro che sanno dare il meglio anche in condizioni difficili o sub-ottimali, perché sanno trovare una o più soluzioni ai problemi che si presentano.

E così ho imparato a cambiare, a smettere di lamentarmi, a trovare una soluzione, ad accettare che le cose non sempre siano ottimali. Ma allo stesso tempo ho provato a portare il cambiamento, in modo graduale e propositivo, inventandomi nuovi modi per coinvolgere le persone in questo processo. E i risultati di questo lavoro – innanzitutto interiore, con me stesso – li sto vedendo ogni giorno, misurando e constatando che le cose possono cambiare, che io posso cambiare.

Ogni giorno che passa imparo sempre più a cambiare. Mi sforzo, mi alleno a cambiare. Sono arrivato al punto di cercare di uscire sempre più dalla mia confort-zone, perché è lì dove accadono le cose più interessanti, dove mi accorgo di imparare davvero qualcosa di nuovo per me. Imparo a saper schiacciare anche quando la palla non è perfettamente dove la volevo io (o meglio, dove ero abituato a trovarla). Imparo ad imparare (altro bellissimo concetto, legato questo al metodo di insegnamento Montessori, ancora grazie Jacopo!).

Perché è solo a quel punto che i nuovi framework, le nuove tecnologie, i nuovi software prendono senso: quando diventano parte integrante di un processo di apprendimento volto ad imparare a trovare soluzioni, non tool; a lavorare in condizioni che nella stragrande maggioranza dei casi probabilmente rappresentanto la normalità, e saper  fare la differenza e portare valore in ogni caso, qualunque esse siano queste condizioni.

Insomma, quando sai affrontare il cambiamento così come lo affrontano i bambini: con un sorriso sul volto, senza aver paura di ciò che è nuovo e sconosciuto, cercando di tirar fuori comunque il meglio da ciò che ti sta attorno.

Conferenze e eventi

Diciamo che all’inizio ero rimasto molto spiazzato, in questo senso. Mi sarei aspettato molto più “sottobosco culturale”, e invece qui ci sono essenzialmente due tipologie di conferenze: i meetup, che sono perlopiù dei modi di fare networking, abbastanza frontali e con poca interazione fra speaker e pubblico (in compenso, c’è sempre birra e pizza assicurata per tutti), e i grossi eventi a pagamento, le conferenze classiche che però ho sempre la sensazione siano in fondo delle enormi passerelle auto-promozionali per gli speaker, e i contenuti passino in secondo piano, così come la possibilità di scambiare conoscenza fra i partecipanti (al di là delle solite domande dal pubblico, intendo).

Col tempo mi sono ritagliato però quei due o tre eventi che tutto sommato posso considerare punti fermi: Front-End London, un appuntamento mensile con relatori e speech di altissimo livello, organizzato da due ragazzi giovanissimi e pieni di passione, Chris Bell e Andrew Walker di Made by Many; poi c’è London JS anche questo appuntamento pressoché mensile, molto più dev-oriented ma comunque con talk di buon livello, e infine London Web Standards, evento con cadenza un po’ meno frequente ma comunque con talk interessanti (organizzato fra l’altro da una simpaticissima – e molto brava – sviluppatrice italiana).

Questo però significa anche che c’è un sacco di spazio per nuovi eventi, nuovi formati, nuove community, nuove idee. E devo dire che se all’inizio mi ero detto non sarei tornato a organizzare eventi per un bel po’, in realtà già adesso mi è tornata la voglia, e ho già cominciato a discuterne con un po’ di gente, sia italiani a Londra come me che “gente del luogo”. Vediamo che ne viene fuori. Stesso discorso vale per fare lo speaker a conferenze e eventi: una volta capito come funziona “il giro”, sono passato dalla fase “non se ne parla per un bel po’ di tempo” a fare una prima, timida submission per una conferenza a novembre. Anche in questo caso, vediamo come va a finire (mi sono reso conto velocemente, facendo presentazioni interne aziendali, che è tutt’altro discorso fare public-speaking in una lingua che non è la tua lingua madre).

UX Camp London

Conclusioni

Non voglio mettermi a tirare conclusioni sulla mia esperienza, perché ovviamente non è che l’inizio dell’avventura. Però credo che una conseguenza diretta di ciò che ho scritto a proposito del cambiamento la devo trarre. E riguarda questo blog.

Se voglio “adattarmi al cambiamento”, devo prendere atto che ora il mio habitat è un luogo in cui le persone parlano in inglese, scrivono in inglese, leggono in inglese. E che avrò sempre più persone  appartenenti a questo habitat che vorranno leggere quello che scrivo. Per questo occorre nuovamente uscire dalla mia confort-zone, e (s)forzarmi a scrivere i miei post in lingua inglese (vale quanto scritto sopra: non è la stessa cosa che scriverli nella propria madrelingua). Per cui a meno di motivi particolari, questo sarà il mio ultimo post in italiano.

See you soon. :-)

Go to blog index